“Ho l’onore di comunicarle che da oggi 5 maggio 1973, alle ore 12,39 locali, sulla cima dell’Everest sventola la bandiera italiana - STOP…”
Iniziava così il messaggio inviato al sottocapo dello Stato Maggiore dell’Esercito da Guido Monzino, ideatore e capo della spedizione spiccatamente militare che aveva portato i nostri soldati sulla vetta dell’Everest vent’anni dopo la prima conquista della cima. Fu un traguardo non indifferente, di cui quest’anno ricorre il cinquantenario.
Monzino, alpinista ed esploratore, era un instancabile imprenditore milanese, patron dei grandi magazzini Standa, che aveva già organizzato e finanziato altre venti spedizioni (la 21^, sull’Everest, sarà la sua ultima) dalle Ande Patagoniche alla Groenlandia (ben 10 spedizioni), passando per il Nepal, il Nordafrica o il Polo Nord dove nel maggio 1971 aveva portato la bandiera italiana a sventolare per la prima volta, dopo averlo raggiunto su slitte trainate dai cani.
La cima più alta del mondo, il monte Everest, chiamato dai tibetani Ciomolungma, “la Dea Madre della Terra”, che con i suoi 8.848mt svetta su un’area di circa 2.500km di lunghezza per 200 di larghezza occupata da altissime montagne, non era mai stato raggiunto da italiani; da qui l’idea di organizzare una spedizione per portare il Tricolore anche lì.
Nel 1972 Monzino chiese quindi il beneplacito del Ministro della Difesa, On. Mario Tanassi, per organizzare e portare a termine una spedizione alpinistica alla cima nepalese, organizzandola come una vera e propria operazione militare, tra l’altro molto complessa, che coinvolgesse oltre ad alpinisti e scienziati civili, anche personale qualificato di tutte le Forze Armate e dei Corpi Armati dello Stato, che avrebbero fornito le principali cordate per la cima. Lo scopo della spedizione doveva essere duplice: oltre a portare la bandiera del nostro Paese sulla cima più alta del mondo, sarebbero state compiute importanti ricerche scientifiche e mediche di importanza mondiale e sarebbe stata testata l’efficacia dell’addestramento e degli equipaggiamenti in dotazione alle Forze Armate in condizioni ambientali estreme.
Monzino, ottenuto il beneplacito dai nostri vertici militari ed anche l’importante permesso del governo nepalese per una simile esigenza, chiese quindi la collaborazione dell’allora Scuola Militare Alpina (oggi Centro Addestramento Alpino), punto di riferimento nazionale per tutte le attività militari legate all’alpinismo. Il comandante della Scuola, Generale Massimo Mola di Larissè, fu subito entusiasta dalla cosa, anche perché da tempo il personale della SMALP non partecipava a spedizioni extraeuropee, e l’avventura ebbe inizio. Per la IEE-73 (Italian Everest Expedition 1973, il nome ufficiale dell’operazione) tutto fu strutturato come per una manovra militare: creazione di un apparato logistico, scelta ed approvvigionamento dei materiali, selezione del personale. Mentre la parte burocratica ed amministrativa veniva curata da un nucleo appositamente istituito presso il III Corpo d’Armata di Milano e nella stessa capitale lombarda venivano effettuati tutti gli esami clinici e fisiologici per i componenti, la “parte tecnica” fu concentrata ad Aosta dove oltre al raggruppamento dei materiali vennero fatte le selezioni attitudinali per il personale (tutto volontario), l’addestramento alpinistico (anche specifico per l’alta quota e l’uso di bombole di ossigeno) ed il necessario affiatamento.
Alla spedizione, la SMALP dedicò molti dei suoi uomini “di punta”, come il Ten. Col. Pistono, responsabile operativo della spedizione, il Capitano Molinari, direttore della parte logistica, e Istruttori di Alpinismo come il Capitano Roberto Stella, i Marescialli Virginio Epis e Agostino Tamagno o il Sergente Maggiore Claudio Benedetti.
Tra i primi 250 volontari selezionati si arrivò, nel dicembre 1972, alla scelta finale di una quarantina di alpinisti militari di Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia, oltre a personale dell’Aeronautica per un nucleo trasmissioni (che terrà aperte in maniera capillare tutte le comunicazioni non solo tra la spedizione e l’Italia, ma anche quelle tra i vari Campi di salita), personale dell’Aviazione Leggera Esercito (piloti e tecnici dei due Elicotteri AB 205-A1 al seguito della spedizione) e qualificati scienziati civili di supporto, con un attrezzatissimo laboratorio scientifico- fisiologico curato dal Prof. Cerrettelli, docente di fisiologia all’università di Milano.
Ben una ventina degli uomini selezionati appartenevano alle Truppe Alpine: oltre ai cinque appartenenti alla SMALP già citati (che comunque non erano i soli a provenire dalla prestigiosa istituzione), vi erano il Cap. Adolfo Tarcon, il Ten. Paolo Plazzotta*, il S.Ten. Massimo Cappon, i Sergenti Maggiori Fausto Lorenzi, Edoardo Ragazzi, Carlo Rossi, Ermanno Trentarossi e Dario Vallata*, il Sergente Mirko Minuzzo, i Caporal Maggiori Sigfried Messner (fratello di Reinhold Messner) e Hermann Tauber ed infine gli Alpini Mario Bianchi, Rinaldo Carrel, Mario Dotti* e Vincenzo Mattioli. Alcuni, come Minuzzo e Dotti, forti alpinisti anche in campo civile, erano stati richiamati in servizio per l’occasione. Alla cinquantina di militari italiani si aggiunsero anche 2 militari cileni invitati direttamente da Monzino,
che li aveva avuti con sé in precedenti spedizioni. Anche tra il personale italiano vi erano alcuni componenti che già avevano fatto parte di spedizioni di Monzino: Carrel, Minuzzo e il S.Ten. Medico Dott. Miserocchi, ad esempio, lo avevano accompagnato nella spedizione al Polo Nord del 1971.
Mentre vengono preparati tutti i materiali per l’imponente spedizione, che mobiliterà circa 130 tonnellate di carichi, gli allenamenti del personale si concentrano sulle cime valdostane nella zona del Cervino e del Monte Bianco (salito più volte), con anche giorni e notti dedicati alla sopravvivenza nei seracchi.
Il 16 gennaio 1973 i primi due aerei C-130 dell’Aeronautica Militare, carichi di attrezzature, partono per la base logistica della spedizione che è preparata a Lukla, in Nepal, a 2.800 metri, dove è allestito pure un eliporto per gli elicotteri della spedizione (denominati ITALIA-1 e ITALIA-2), anch’essi trasportati per via aerea.
Ci vorranno dieci viaggi per portare tutti i materiali sul posto. I 53 militari e i 10 civili della spedizione arrivano a Kathmandu il 7 febbraio e poi raggiungono Lukla, da dove il 20 partono per raggiungere dopo 29 giorni il punto in cui allestire il Campo Base, a quota 5.356. Questo primo periodo in movimento è reso disagevole dal tempo in continuo peggioramento, al quale si aggiunge uno “sciopero” per motivi sindacali dei portatori locali (per la spedizione erano stati ingaggiati 80 Sherpa d’alta quota e 2.000 portatori con oltre 200 yak). Per fortuna la presenza dei due elicotteri permette il trasporto di tutti i materiali al Campo Base. L’utilizzo degli aeromobili - sebbene abbia poi innescato varie polemiche nel mondo alpinistico - in una spedizione come questa, nata anche per testare mezzi e materiali, dimostrò sin da subito la grandissima versatilità e utilità di questi mezzi anche a quote così alte e in due casi permise anche la veloce evacuazione di alpinisti malati. Uno dei due Elicotteri (ITALIA-1), pilotato dal Sergente Maggiore Paludi e dal Capitano Landucci, stabilì anche un record mondiale atterrando a 6.500 metri di quota.
Purtroppo il 17 aprile, lo stesso mezzo, in quel momento con a bordo il Cap. Landucci, il Ten. Pecoraro e il Serg. Magg. Cristallo, a causa di una improvvisa turbolenza difficile da prevedere in quelle condizioni ed a quelle quote, fu costretto ad atterrare fortunosamente, con un violentissimo impatto che mise il mezzo fuori uso, lasciando per fortuna illeso l’equipaggio, fatta salva una lussazione di Cristallo, subito ridotta dal dott. Miserocchi.
Il mezzo, scivolato poi in un crepaccio, fu abbandonato e i suoi resti sono rimasti in loco per 36 anni fino a quando, nel 2009, sono riaffiorati e sono stati rimossi dalla spedizione Eco Everest Expedition.
Il 23 marzo il Campo Base era allestito ed operativo, comprensivo dell’intero Laboratorio Fisiologico dove i partecipanti furono sottoposti a prove da sforzo e controlli di ogni tipo.
L’ascesa era pianificata dal Colle Sud per la cresta sud-est, e ora doveva partire una delle fasi più pericolose dell’ascensione alla vetta da questo versante: il superamento dell’insidiosissima IceFall, la “cascata di ghiaccio”, un lunghissimo tratto di seracchi formati dal ghiacciaio Khumbu. Questo ghiacciaio si muove ad una velocità impressionante (da 0,9 a 1,2 metri al giorno) formando crepacci che si aprono all’improvviso e modificando in continuazione i seracchi e le torri di ghiaccio che crollano repentinamente. Enormi blocchi ghiacciati grandi quanto abitazioni rotolano giornalmente lungo il ghiacciaio, il cui attraversamento è di una pericolosità estrema anche usando corde e scale. L’Ice Fall era ben noto per avere mietuto molte vittime.
Già il giorno 24 iniziano i preparativi per attrezzare l’insidiosa città di ghiaccio verso la quale sono ora indirizzati i timori e le ansie degli alpinisti. I primi ad attaccare le difficili pareti ghiacciate per trovare la via ideale e meno pericolosa sono il Tenente degli Alpini Paracadutisti Plazzotta, i Sergenti Maggiori Alpini Benedetti e Lorenzi, l’Alpino Paracadutista Dotti, la Guardia di P.S. Franzoi ed il finanziere Leviti, con 15 sherpa, cui sarebbero seguiti gli altri alpinisti che dovevano allestire il Campo 1 a 6.157 metri. Con grandi difficoltà la via è tracciata e il Campo 1 è allestito il 27 marzo.
Il giorno successivo transiteranno dall’IceFall ben 81 persone (tra cui 62 sherpa) in un’operazione alpinistica arditissima e mai effettuata con questi numeri. Il 29 marzo sarà attrezzato il Campo 2 a 6.450 metri di quota. Qui, con l’arrivo dei tre scalatori della Marina Verbi, Mao e Santoro (tutti e tre Incursori del Comsubin), sono presenti a più di seimila metri componenti di tutte le FFAA e Corpi dello stato; già questo era un record di per sé.
Dopo battute d’arresto e riprese, con difficoltà enormi dovute alla quota e con condizioni atmosferiche sempre meno ottimali causate dai forti venti e dalla ricomparsa di intense nevicate, sono allestiti altri campi più alti: il 1° aprile Campo 3 a 6.930mt sotto la parete Ovest del Nuptse; 16 aprile, superata una parete di ghiaccio di 15 metri, è predisposto il Campo 4 a 7.450mt sotto lo “sperone degli Inglesi” e inizia poi la preparazione per predisporre il Campo 5 al Colle Sud.
Per altri quattro giorni però, dal 20 al 24 aprile, violente perturbazioni costringono ancora tutti all’immobilità accentuando molto il nervosismo degli alpinisti, che ancora non conoscevano neppure le composizioni delle cordate scelte per salire in vetta. Teoricamente dovevano essere sette o otto, ciascuna formata da due italiani ed uno sherpa, ma tutto era ancora nelle mani del “deus ex machina” Guido Monzino, che voleva che la cima fosse raggiunta da rappresentanti di tutte le FFAA e Corpi dello Stato. Tormentati dall’insonnia e dall’inappetenza, i componenti iniziano ad accusare i classici sintomi della prolungata permanenza ad alta quota, inoltre due alpinisti devono essere evacuati in elicottero dal Campo 4 perché colpiti da pleurite ed edema polmonare; altri, molto provati, scendono ai campi più bassi.
Il primo maggio, come se non fosse abbastanza, il tempo peggiora ulteriormente, con neve insistente e vento a 50 nodi, ma il 2 di maggio, appena in tempo prima di un’altra violenta bufera, il gruppo di testa
(due cordate da due elementi), partito il 28 aprile dal Campo 2, raggiunge finalmente il Colle Sud e monta il Campo 5 ad una quota ormai vicina agli 8.000mt. È formato dall’Alpino Carrel, dal Sergente degli Alpini Minuzzo e da due Sherpa. Altre due cordate, formate dal Capitano Innamorati dei Carabinieri Paracadutisti, dal Maresciallo Epis e dal Sergente Maggiore Benedetti della SMALP e da uno Sherpa, seguono a ruota.
Per altri due giorni gli scalatori sono costretti a stare riparati nelle tende da una violenta tempesta col rischio di dover riscendere nuovamente per evitare l’eccessivo consumo di ossigeno. Finalmente il 4 maggio una schiarita permette al primo gruppo di salire dai 7.985 metri fino agli 8.513 dove viene montato l’ultimo campo, il 6: solo due tendine sotto un’insidiosa cresta di ghiaccio.
Il 5 maggio Rinaldo Carrel, Mirko Minuzzo e gli Sherpa Lhakpa Tenzing e Sambu Tamang si inerpicano verso l’anticima dell’Everest nel tratto più tecnico del percorso, con passaggi su una cresta aerea e una parete quasi verticale di 12 metri (chiamata Hillary Step, dal nome del primo salitore della montagna) che si supera con un camino di neve e roccia. La Cima Sud, a 8.750 mt, il punto di riferimento che indica le ultime due ore per la vetta, è raggiunta attorno alle 10.45. Poi l’ultimo decisivo strappo fino alla cima, che i quattro raggiungono alle 12.39 (07.39 ora italiana), dopo sei ore dalla partenza, sventolandovi la bandiera italiana e quella nepalese.
Monzino comunica la notizia con un laconico messaggio: “Vittoria. Raggiunta la cima ore 12.39 locali. Seguiranno notizie”.
Mentre i primi salitori riscendono, sale verso il Campo 6 il gruppo di Fabrizio Innamorati, Virginio Epis, Claudio Benedetti e dello Sherpa Sonam Gyaltzen.
Il 7 maggio, partiti dall’ultimo campo alle 5.30, anche questi quattro uomini, che salgono faticosamente nella neve alta del versante nepalese per evitare pericolosi distacchi di qualche cornice di cresta, raggiungono la vetta alle 13.15 godendo anch’essi dell’incredibile spettacolo da una cima che domina tutto attorno colossi come il Lothse, il Makalu, la cresta del Nuptse, il gruppo dell’Annapurna e i ghiacciai del Tibet.
Gli sforzi però non sono finiti per gli ultimi salitori: il tempo peggiora velocemente e la discesa del gruppo di Innamorati, Epis e Benedetti avviene in maniera quasi drammatica, tra raffiche di vento fortissime e nuvole che si addensano sempre di più.
Dopol’Hillary Step, Benedetti e Sonam Gyalzen rimangono senza ossigeno avendone consumato troppo in salita. Epis riesce a dare a Benedetti, accasciato sotto uno sperone di roccia, qualche boccata dal suo boccaglio. Sono attimi terribili.
Da solo Epis (anche Innamorati è allo stremo), con uno sforzo enorme scende per ben due volte a recuperare due bombole semivuote abbandonate durante la salita qualche centinaio di metri sotto, per portarle ai due in crisi e le sostituisce con difficoltà liberando come può le valvole incrostate di ghiaccio. La marcia riprende con difficoltà e con una lentezza enorme e dopo sette ore, con due ore di ritardo sul previsto, ormai al buio i quattro raggiungono il Campo 6 trovandovi però una tenda sepolta dalla neve e l’altra, rimasta aperta, stracciata dal fortissimo vento. Mentre gli altri sono impotenti e semincoscienti per la stanchezza e per l’ipossia, tocca ancora ad Epis liberare a mani nude l’unica tenda rimasta.
Stremati dallo sforzo e dal sonno i quattro poi si stringono tutti assieme nella tendina, adattandosi a bivaccare in qualche modo; Innamorati, con un gesto inconsulto dettato
dal poco ossigeno, si era intanto tolto i sovrascarponi e non sente più i piedi; è sempre Virginio Epis che, ormai anche lui senza più forze, in qualche modo tenta di riattivargli la circolazione. Epis poi racconterà: “Non so chi o cosa mi abbia aiutato in quell’occasione; non avevo più forze e cercavo solo di mantenermi lucido, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”.
La situazione è drammatica; i quattro resistono così per qualche ora cercando di riposarsi, ma è impossibile. Alle prime luci decidono di scendere ancora ed è durante la discesa che i quattro vengono raggiunti dal Dott. Miserocchi e da otto Sherpa e partiti in soccorso con altre bombole di ossigeno e medicine.
Questi erano parte del gruppo successivo guidato dal Capitano Stella, che scalpitava, al Campo 5, assieme al Maresciallo Tamagno e al Sergente Maggiore Lorenzi in attesa di salire in cima.
Rimessisi in forze, tutti poi riescono a riprendere la discesa, ma ormai è evidente che far salire altre cordate è troppo pericoloso: il persistere delle condizioni atmosferiche proibitive causate dal monsone in arrivo che si preannuncia con violentissime ed improvvise bufere di neve, fa sfumare quindi l’ambizioso progetto di portare sette cordate sulla cima della montagna. L’8 maggio quindi, Monzino, per non mettere a grave repentaglio l’incolumità degli alpinisti, nonostante le loro speranze ed ambizioni decide di concludere tutta l’operazione e richiama a valle le
altre cordate pronte per la salita, che con grande rammarico rientrano al Campo Base.
Sicuramente per il capospedizione non deve essere stato facile prendere una simile decisione anche contro il parere di molti, ma il rischio di funestare tutta l’operazione con perdite umane è troppo alto e la decisione di Monzino non è negoziabile.
A metà maggio tutta la spedizione - nella quale l’impegno dei nostri militari che hanno messo volontariamente in gioco anche la propria vita per rappresentare la Nazione, fu, ancora una volta, massimo - rientra in Italia e i componenti vengono ricevuti al Quirinale dal Presidente Giovanni Leone e in Vaticano da papa Paolo VI; il successivo 2 giugno partecipano alla sfilata sui Fori Imperiali di Roma (foto sotto).
La stampa esalta l’impresa di Monzino con toni come quello dell’articolo di Egisto Corradi, inviato speciale del Corriere della Sera a Kathmandu, che titolerà:
“SENZA PRECEDENTI L’IMPRESA DEGLI ITALIANI SULL’EVEREST. IL DUPLICE SUCCESSO DELLA SPEDIZIONE È UNA PROVA DELL’EFFICIENZA DELLE FORZE ARMATE”.
In effetti, nonostante le polemiche poi scaturite sull’operazione da parte del mondo alpinistico, legate al grande dispiego di forze e mezzi (Edmund Hillary stesso, primo salitore dell’Everest commenterà: “si tratta di un’esercitazione militare…” che “…non ha nulla a che fare con l’alpinismo”) e altre più “nostrane”, dovute a certe decisioni prese e ad un certo dispotismo di Monzino (per altro quasi obbligatorio per poter coordinare una complessa operazione del genere), è innegabile che la spedizione è stata comunque una straordinaria affermazione internazionale (anche di grande importanza scientifica) che ha dimostrato la grande capacità di organizzazione e l’alto grado di preparazione alpinistica degli Alpini e delle nostre Forze Armate in generale.
Una nota personale: quando, nel 1984/85, da giovane Tenente in SPE, feci i corsi di alpinismo e sci alla SMALP per diventare Istruttore, i miei insegnanti e mentori di allora erano proprio i Marescialli Virginio Epis, Agostino Tamagno, Claudio Benedetti ed Edoardo Ragazzi, gli “uomini dell' Everest”.
Sono stati veri professionisti della montagna, a tutto tondo, da cui ho imparato moltissimo; questo articolo è dedicato a loro. A chi è ancora con noi e a chi purtroppo è “andato avanti”.
*: Alpini Paracadutisti.