La guerra sulle Alpi nel ‘700
(prima parte)
Abbiamo ricordato, in due precedenti schede (17.02.2021 e 15.03.2021), che alla base della fondazione dei Reparti Alpini (Riforma Ricotti, Regio Decreto del 15 ottobre 1872), stava, tra l’altro, un cambio di impostazione strategica in caso di invasione del Paese. Si veniva progressivamente indebolendo la convinzione che il nemico dovesse essere sconfitto e ricacciato una volta che fosse giunto nella Pianura Padana, mentre le fortificazioni nelle vallate dovevano limitarsi a rallentarne l’avanzata. Prendeva invece piede l’idea che l’invasore potesse essere bloccato, o comunque contenuto a lungo ed indebolito, sui valichi. Se questa poteva essere vista come un’innovazione strategica rispetto all’impostazione ottocentesca, influenzata anche dalle grandi battaglie napoleoniche, non lo era rispetto all’impostazione seguita dal Regno di Sardegna-Piemonte nel Settecento.
In questa ottica, i sanguinosi combattimenti sulle Alpi della prima guerra mondiale, che stupirono, come vedremo en passant, i contemporanei, non sono stati una vera novità. Nel Settecento vi era stata un’altra grande guerra, che per l’epoca non è azzardato denominare mondiale, nella quale si erano verificati altrettanto cruenti scontri sulle Alpi. Inoltre in entrambi i casi si creò un’epopea al riguardo. I luoghi erano diversi (le Alpi del nordovest e non quelle del nordest) e diverse le alleanze (alleati erano gli austriaci e nemici i francesi). Inferiori furono le perdite (la tecnologia bellica, per fortuna, era meno sviluppata) e la risonanza (non c’erano giornali ed inviati di guerra). Tuttavia non sono assenti somiglianze tattiche, riconducibili principalmente a due fattori: da un lato le complessità del terreno, che impongono vincoli e comportamenti obbligati, quali le difficoltà nei trasporti, in particolare delle artiglierie, e l’uso di trinceramenti; dall’altro quella grande variabile esterna che è il tempo meteorologico in alta montagna.
Mi sto riferendo alla lunga Guerra di Successione Austriaca, detta anche guerra della Prammatica Sanzione, che durò dalla fine del 1740 ad ottobre del 1748, coinvolgendo quasi tutte le potenze europee. L’origine della guerra risiedeva nella volontà da parte di alcune potenze, in primis la Prussia di Federico II, di approfittare della debolezza internazionale di Maria Teresa d’Asburgo, succeduta al padre Carlo VI. Da questo primo casus belli, esattamente come nella prima guerra mondiale, altri stati entrarono successivamente nel conflitto, aprendo nuovi fronti. Combattuta principalmente in Europa centrale, la guerra vide significative operazioni anche nei Paesi Bassi Austriaci, in Italia, nell’Atlantico e nel Mediterraneo; inoltre ad essa vanno collegati ulteriori scontri in America del Nord, America del Sud ed India. A ragione può quindi essere definita mondiale. Per semplicità può essere suddivisa in tre conflitti distinti, ma collegati tra loro: il primo tra Prussia e Austria per il possesso della Slesia; il secondo con Austria e Regno di Sardegna alleati contro i tentativi spagnoli di riconquistare territori in Italia settentrionale con l’aiuto francese; il terzo a livello globale tra Gran Bretagna e Francia.
Ovviamente qui interessa il secondo conflitto ed in particolare i tentativi delle due monarchie borboniche di Francia e Spagna di scendere in Italia attraverso i passi alpini. L’obiettivo non era tanto la conquista di Torino (la sonora sconfitta all’assedio del 1706 forse aveva insegnato qualcosa), quanto di passare in Liguria per il controllo di Genova. In questo conflitto troviamo ben tre significativi scontri in alta montagna: le due battaglie di Casteldelfino del 1743 e 1744 in alta valle Varaita e la battaglia del colle dell’Assietta del 1747 tra la valle di Susa e la val Chisone. Oltre alle analogie strategiche generali (guerra d’arresto in alta quota), queste battaglie mostrano evidenti somiglianze tattiche con quelle condotte più di un secolo e mezzo dopo sulle Alpi Orientali. Un altro aspetto caratterizzante riguarda i risvolti propagandistici (mediatici, in terminologia moderna) e popolari che scaturirono da questi fatti in entrambi i conflitti.
La prima battaglia di Casteldelfino. Nel 1742 il Regno di Sardegna, dopo alcune incertezze, era entrato in guerra al fianco di Maria Teresa. L'infante di Spagna Don Filippo, dopo aver occupata la Savoia, tentò nel 1743 di penetrare in Piemonte, con un esercito di 32.000 uomini attraverso il colle dell’Agnello a 2.748 metri d’altitudine, mentre una colonna francese di 10.000 uomini attraversava il vicino e ancor più malagevole col di Saint Veran a 2.843 metri. Si tratta di due valichi alle falde del Monviso, all’epoca molto impervi (il Saint Veran lo è ancor oggi), che congiungono il Queyras all’alta val Varaita e di qui al Saluzzese. Le due colonne dovevano congiungersi nei pressi di Casteldelfino, percorrere le valli Maira e Varaita, attraversare il Saluzzese e, per il col di Tenda, raggiungere Genova. Carlo Emanuele III (re Carlin, per i piemontesi), informato anzi tempo dei progetti gallo-ispanici (i servizi di informazione piemontesi dovevano essere piuttosto efficienti, o i piani spagnoli tenuti poco segreti), lasciò l’Emilia, dove stava combattendo assieme agli austriaci contro un altro esercito spagnolo, per bloccare l’invasione. 17.000 uomini in 26 battaglioni, oltre alle compagnie Valdesi, cominciarono ad affluire fin dal 14 luglio e si trincerarono in modo da dominare e bloccare la valle che scende dall’Agnello e, per evitare aggiramenti, quella di Bellino, che confluisce nella prima per l’appunto a Casteldelfino.
Le prime avanguardie spagnole raggiunsero il colle dell’Agnello il 1° ottobre; il 4 l’intero esercito, rafforzato dalla colonna francese, era accampato a Chianale, a monte di Casteldelfino; il 7 iniziò l’attacco, che durò fino a tutto il 10. Senza entrare nel dettaglio delle operazioni, è importante notare che gli assalti vennero respinti soprattutto grazie all’intenso fuoco di fucileria ed artiglieria. L’Ordine di Battaglia del re vietava espressamente il fuoco “per salve o scariche”, prescrivendo il “colpo ben mirato” individuale, appoggiandosi alle opere di difesa; inoltre, data l’inutilità in quel tipo di combattimento, disponeva che sergenti ed ufficiali lasciassero alabarde e partigiane a favore dei fucili, ma per gli ufficiali solo se “sanno ben maneggiarli”. L’11 vi furono poche scaramucce, mentre il tempo veniva decisamente peggiorando, al punto che le vedette piemontesi non riuscivano più individuare i movimenti del nemico. Il 12 i gallo-ispanici iniziarono a ritirarsi, vista non solo la tenace resistenza dei difensori, ma soprattutto le condizioni metereologiche (bufere di vento e neve), che già avevano causato il mancato afflusso di rifornimenti e la penuria di viveri. Si temeva a ragione che il mancato ripiegamento potesse causare la perdita dell’intero esercito. Il 13 erano al di là dei passi. Per alcuni giorni gli spagnoli fecero tentativi di recuperare gli effetti lasciati in val Varaita, ma fu impossibile, soprattutto a causa della neve e del gelo. Caddero nelle mani dei sabaudi tutte le artiglierie (dodici cannoni), buona parte degli equipaggiamenti ed oltre 300 muli.
Non ho trovato dati completi ed attendibili sulle perdite francesi e spagnole: alcune testimonianze parlano di 800 fra morti e feriti nella sola giornata del 9 ottobre, la più cruenta; in generale va sottolineare che le truppe che si avvicinavano ai trinceramenti si trovavano sempre sotto il tiro dei difensori, dotati anche di artiglierie. Inoltre notevoli (qualche centinaio) furono le perdite di uomini ed animali per assideramento nel riattraversare i passi. Inferiori le perdite dei piemontesi, che combattevano dai trinceramenti. Il “Journalier de l’Armée” del 12 ottobre riporta 27 morti, 167 feriti, 41 disertori e 24 malati.
La sconfitta dei gallo-ispanici fu dovuta fondamentalmente ad un insieme di fattori che interagirono: da un lato la sopravvalutazione delle proprie capacità, la sottostima di quelle nemiche, la pressione delle corti di Madrid e Versailles perché si agisse in fretta, la determinazione dei piemontesi, stimolati anche dalla presenza del re; dall’altro la mancata accurata valutazione del territorio e delle sue condizioni climatiche. Tutto ciò portò ad organizzare la spedizione a stagione inoltrata ed a trovarsi di fronte due nemici: i sabaudi ed il tempo. I primi non dovettero far altro che resistere ed aspettare che il secondo completasse il lavoro. Un partecipante francese scrisse: “Le ragioni che hanno indotto l’esercito gallo-ispanico nel Delfinato a penetrare le frontiere del Piemonte, in una stagione che ha fatto considerare l’impresa come una temerarietà, sono assolutamente al di là della mia comprensione di subalterno”.
Meglio preparata fu l’invasione del 1744. Non solo iniziò più presto, ma vide impegnate più truppe con una manovra più complessa. Nel mese di luglio un esercito francese comandato dal principe di Conti, coadiuvato da truppe spagnole al comando del marchese de La Mina, sotto il comando generale dell’Infante Filippo, entrò in Piemonte con nove colonne, occupando il Monginevro e la valle di Cesana, come diversivo che simulasse un attacco verso Torino, e la testa delle valli Stura, Maira e Varaita (colle dell’Agnello). Tutte le nove colonne raggiunsero le posizioni assegnate da Conti nonostante le forti piogge. Dalla val Maira i francesi passarono in val Varaita per sostenere le due colonne già presenti. Ancora una volta si trovarono di fronte i trinceramenti sopra Casteldelfino.
La seconda battaglia di Casteldelfino viene talvolta ricordata come la battaglia di Pietralunga, per distinguerla dalla precedente. I francesi disponevano di 11 battaglioni pari a circa 5.000 uomini; i sabaudi di 2.400 uomini e due cannoni da montagna da 4 libbre per la difesa delle ridotte a Pietralunga e di una riserva a Villaret per un totale di 1.500-1.600 uomini: in tutto circa 5.000 uomini (7 battaglioni). La battaglia si svolse il 18 luglio e terminò un'ora prima della notte. Una fitta nebbia favorì i francesi permettendo loro di impadronirsi degli avamposti e di avvicinarsi alle fortificazioni principali senza essere scoperti. L’azione fu un susseguirsi di feroci scambi di fuoco a distanza ravvicinata, assalti cruenti, ritirate e ripresa degli assalti. Per ben tre volte al comando di ritirarsi per non esporsi ulteriormente i soldati francesi non obbedirono e rinnovarono l’assalto, decidendo così l’esito della battaglia. I sabaudi dovettero ritirarsi coperti da 300 dragoni armati di pistola, mentre i reggimenti Guardie e Saluzzo accorrevano per proteggere la ritirata dei fuggitivi.
I piemontesi ebbero 1.350 caduti nel combattimento, 300 durante la fuga e 300 prigionieri, i francesi 750 caduti, compresi il comandante in capo e due colonnelli e catturano i due pezzi d’artiglieria da montagna. La violenza dei combattimenti è confermata dalle perdite complessive delle due parti, (3.500 uomini, compresi i feriti): significativo il fatto che il battaglione francese Conti rimase con soli 10 uomini validi. Il principe Conti, in un rapporto a Luigi XV, con la consueta modestia francese, descrisse gli scontri come "l'azione più brillante e vivace che sia mai accaduta. […] Gli uomini vi hanno mostrato valore al di là di tutta l'umanità. Le nostre brigate si sono sfoggiate nella gloria".
In seguito alla sconfitta Carlo Emanuele III diede l’ordine di evacuare le valli Maira e Stura e di raggiungere la linea difensiva di Costigliole Saluzzo, dove l'esercito principale era attestato. Mentre infuriava la battaglia di Casteldelfino, la maggior parte dell'esercito franco-spagnolo superava abilmente le fortificazioni di Demonte in valle Stura, raggiungendo le pianure del Piemonte meridionale. Per raggiungere Tenda e da qui la Liguria bisognava superare la città fortificata di Cuneo, difesa da 4.089 soldati sotto il comando del nuovo governatore, il barone di origine sassone Wilhelm von Leutrum (Barôn Litrôn, per i piemontesi). L'assedio da parte di 45.000 uomini iniziò il 15 settembre. Il 29 settembre da Saluzzo Carlo Emanuele arrivò con 25.000 uomini (su 40.000 di tutto l'esercito sabaudo) per soccorrere la città. La battaglia che ne seguì il 30 a Madonna dell’Olmo alle porte di Cuneo vide i gallo-ispanici uscire vincitori, ma molto indeboliti, al punto che entro il 21 ottobre levarono l’assedio.
Il successo franco-spagnolo si spiega con un maggior dispiegamento di forze ed una più accurata valutazione geografica e metereologica rispetto all’anno precedente. Difficile non vedere un parallelo con lo sfondamento a Caporetto e la difesa sul Piave, anche se molto meno colpevole e disastroso: infatti le truppe sabaude non si sbandarono e ripiegarono ordinatamente. Si trattava comunque di una sconfitta, parzialmente riscattata dalla vittoria a Cuneo, che richiedeva un ripensamento tattico e strategico che vedremo nella puntata successiva.